Oltre il nero
Da una decina d’anni sta portando avanti una propria ricerca sulle forme umane e sul rapporto tra il colore – non colore e l’emergenza dallo sfondo di raffigurazioni riconoscibili.
La caratteristica di questa ricerca si pone nella più vasta articolazione di rapporti tra primo piano e sfondo, ma rifuggendo sempre il colore come elemento disturbante.
I corpi di Ambrosino si agitano sotto la superficie pittorica, dipingendo su dibond hanno anche parte del fascino e dell’illusionismo fotografico, ma resta sempre evidente la materia che li permea.
Ne viene fuori una cosmogonia che collega il visivo all’emozionale, in una sintesi di rara efficacia e forza.
In questi lavori recenti continua la sua ricerca sul corpo ma si sofferma su quello dei migranti, corpi solidi, in pericolo, terrorizzati dall’idea della morte e da un futuro indefinito. La foglia d’oro ricorda visivamente il colore delle coperte termiche che accolgono i profughi dopo il salvataggio.
Un segno di accoglienza e di fine pericolo.
La durezza e la profondità dello smalto nero ricorda il mare, il suo incessante movimento e l’angoscia di un abisso pronto ad aprirsi. Ambrosino arricchisce la sa visione del mondo contemporanea sempre drammatica, con una tematica di grande attualità, però lo fa restando correntemente nella sua poetica e accogliendo i migranti come figure di un universo in cui la pietà e l’arte cercano un punto di incontro e di solidarietà.
Valerio Dehò
Non sappiamo bene se il nero sia un colore oppure no. Tecnicamente non lo è. Respinge tutte le frequenze luminose e nello stesso tempo è la somma di tutti i colori. E’ un non colore, cioè sta per conto suo ed è il contrario dell’altro non colore, questa volta positivo, angelico, assoluto, spirituale: il bianco. Strana storia perché una cultura di persone dalla pelle bianca ha esaltato il proprio colore, vedendo la positività in tutto ciò che vi corrisponde. La cultura è anche questo, selezione simbolica, codificazione dei significati, permanenza dei valori. Il bianco è positivo in quanto luce diventa una porta sull’infinito, è candore, rigenerazione, abbacinante metafora del mondo fuori dalla terra e lontano dagli umani .
Anche perché il nero che ne è all’opposto equivale esattamente alla non luce. Solo Caravaggio s’inventò un ossimoro, la sua famosa “luce nera”, qualcosa di torbido, magnifico, straordinario, ma anche di maledetto. Il nero sta dalla parte del male, lo disse anche Mohamed Alì, che non era un intellettuale ma che di negritudine se ne intendeva: viene insegnato ai bambini che questo colore è associato alla negatività, alla morte. Questa è sicuramente l’associazione più forte e stabile. Poi il nero è anche legato all’idea della combustione, memoria dei grandi disastri, degli incendi epocali, del fuoco distruttore come sappiamo da Pompei ed Ercolano. Nel mondo moderno un colore/non colore che domina il nostro immaginario non solo nella classica associazione morte/notte, anche in relazione al tema che ci assilla dagli anni Settanta. Il petrolio, morbido e oleoso, lento nei suoi pigri movimenti, ha lasciato una traccia indelebile nell’immaginario contemporaneo. La visione delle catastrofi delle troppe petroliere naufragate nei mari del Nord, come la purtroppo celebre “Prestige” inabissata al largo della Galizia, ha condizionato giustamente l’immagine di una marea nera che tutto soffoca e allontana definitamente dalla vita.
Danilo Ambrosino nelle sue opere addensa una serie di visioni legate a questo immaginario, le collega in modo creativo all’esistenza di un orizzonte degli eventi contemporaneo che deve ripartire dalla precarietà e dal nero come abisso percettivo. La sua particolare tecnica di smalti su alluminio dà alle sue opere una profondità particolare, una matericità che incide fortemente con la luce e che riesce a trasmettere sensazioni tattili oltre che ovviamente visive. La sua è una pittura fortemente fisica, attrattiva, dove lo sguardo viene coinvolto in relazioni sinestetiche. I corpi sono protagonisti di vere e proprie apparizioni, sembrano prigionieri della materia scura da cui a fatica emergono. Il colore nero possiede una particolare forza di gravità, sia a livello cosmico che a livello di ordinaria percezione, capta la luce per mai più restituirla. Per questo Ambrosino fa agitare ed erompere sulla superficie delle forme vaghe, non sempre esattamente definite, come se si agitassero per cercare la luce naturale, dopo una lunga gestazione al buio. L’effetto che l’artista ottiene è pieno, minimale e per questo ancora più efficace. Sotto la colata del nero si muove la vita. C’è una tensione all’apparire che è poi sostanzialmente essere. Tutto questo non ha soltanto una scansione quasi narrativa. Procede piuttosto per forti tensioni, per scatti che possiedono però una loro morbidezza come se l’immersione nel medium elastico rivelasse e attutisse nel contempo il movimento soggiacente.
Vi è una fluida organicità che pervade l’opera di Danilo Ambrosino e che si accentua nel contrasto dell’emergenza delle forme dallo sfondo nero, assoluto. Le figure che appaiono sembrano in cerca di una liberazione difficile, possibile, ma forse non necessaria.
La pittura concentra nella forma fluens le sue caratteristiche più proprie. La corporeità si agita in una forma tra il liquido e il gassoso, la figura umana resta compressa dallo sfondo nero su cui traluce con incertezza luminosa, ma anche con energia dinamica. E se il nero è il colore del bruciato, della combustione, il contrasto con la fluidità degli smalti che tracciano delle silhouette quasi plastiche è molto marcato, seppur attenuato dal monocromatismo. Il risultato è molto coinvolgente, la sensazione è quella dell’emergere delle forme dal buio, apparizioni di sostanze mentali che si agitano su di uno schermo notturno. La tecnica dell’artista, la sua diretta partecipazione fisica all’opera, danno ulteriori elementi per dare a questa pittura il senso di una gestualità estrema che cerca di accompagnare la pittura nella sua costruzione di un mondo essenziale, denso, al cui interno si sviluppano forme organiche.
Danilo Ambrosino rivela una realtà ulteriore dietro la superficie con la pittura e senza citazioni spazialiste, riesce a comunicare il concetto di una superficie da rompere, rivela il percorso del corpo per diventare luce, spazio, movimento, vita. I suoi tentativi continui e sempre sorretti da grande professionalità, di sperimentare colori e materiali, l’hanno condotto a riconsiderare la figurazione, ma sempre sotto il rigido controllo non solo della mano quanto della materia. Lo smalto diventa superficie e supporto esso stesso, accentua la memoria della pittura esistenzialista sostenuta da un critico come Giovanni Testori, ma rivisitato alla luce, sempre scura, della levigatezza della pittura Pop che comunque ha modificato la sensibilità contemporanea. L’artista proprio nella densità del nero riconosce la sua storia, cioè il suo essere pittore che sa affrontare i problemi dello spazio e della rappresentazione. Il suo è uno spazialismo pittorico che trova un effetto d’estroflessione nel rapporto tra la rappresentazione e lo spessore cromatico. Ricorda una certa fotografia dai forti contrasti, non a caso dedicata ai prodotti organici, come i “Natural studies” di Edward Weston realizzati negli anni Trenta. Per Ambrosino Il movimento dei corpi determina lampi di luce possedendo però una capacità eruttiva, vitalistica, elastica. Siamo lontani dagli esiti per esempio di Giovanni Manfredini che ha sempre fatto interagire il proprio corpo con ile particolari sostanze della superficie pittorica. E’ chiaro però che la densità della pittura è anche memoria della nascita, del nulla da quale proveniamo. Il dato cronachistico dei disastri oleosi che ci hanno colpito non solo visivamente, viene assorbito da elementi esistenziali, dalla capacità dell’artista di far diventare tutto estremamente simbolico. Ma questo simbolismo è icastico, minimale come si addice ad un’ arte che percorre la contemporaneità.
In fondo la capacità di Danilo Ambrosino in questa ultima serie di lavori consiste non solo nel portare a conclusione esperienze precedenti che partono almeno dagli ultimi tre-quattro anni, ma anche di saper legare la sua tecnica personale ad un discorso che riesca a coniugare concettualmente la pittura figurativa e quella aniconica, con tracce e memorie dell’immagine fotografica. Questa personalizzazione delle ricerca indica anche una maturità artistica, una capacità di leggere nella realtà attorno, le motivazioni per complesse relazioni all’interno della storia delle immagini. Alla fine l’energia delle forme che cercano un’esistenza, un’identità, consiste esattamente in una visione di un futuro in cui l’uomo deve affrontare problemi assoluti mai posti prima. Ma anche dal punto di vista individuale la lettura di questi lavori coinvolge il mistero della nascita, dell’erompere dal buio della vita. E’ la trasformazione della materia, la nigredo degli alchimisti, come stato di passaggio da una situazione statica e di forte negatività, ad una di luce e vita, raccontato tra l’altro dalla Marguerite Yourcenar in “L’opera al nero” del 1968. Oltre è il colore della morte e del nulla, c’è probabilmente questo, la tensione della forma a diventare autonoma, definita e definitiva, la capacità dell’uomo di ricomporre dopo il disastro e il lutto un’ organicità dell’essere che non è rifiuto della spiritualità, ma sua premessa necessaria.
Valerio Dehò