Leib_Il Corpo vivente è il titolo della personale di Danilo Ambrosino a cura di Olga Scotto di Vettimo allestita dal 13 novembre 2021 al 30 gennaio 2022 al al Museo Campano di Capua.
La mostra “LEIB_il corpo vivente” di Danilo Ambrosino, a cura di Olga Scotto di Vettimo in programma dal 6 novembre 2021 al 28 febbraio 2022 al Museo Campano di Capua, proietta di fatto il Museo nella sfera dell’internazionalità e dell’internazionalizzazione, configurandolo tra i grandi musei. Le opere di Danilo Ambrosino, attraverso la rappresentazione del corpo da molte prospettive, tracciano una linea immaginaria che comprende l’universalità dell’uomo. Schiene dritte o ricurve, nervi contratti o distesi, tensioni muscolari, movimento, azione, i corpi ambrosiniani trascendono la semplice rappresentazione fisica mostrando spiritualità e interiorità che riassumono in sé la storia dell’individuo con conflitti e angosce, riappacificazioni e serenità. La nostra cultura ha privato il corpo del significato che gli compete, trasformandolo in un “corpo oggetto”, dando luogo a enormi difficoltà a definire i propri confini, a ri-definire sé e l’altro. Il corpo meramente anatomico rappresenta il corpo-oggetto, un corpo che si muove in uno spazio e si identifica con i confini della pelle; il corpo vivente di Danilo Ambrosino, invece, dischiude uno spazio e oltrepassa quei confini, li supera, fondendo l’idea di soggetto vivente del sinolo di Aristotele con la nozione di Leib nei termini di chiasma in Merleau-Ponty, di corpo vivo. Contro l’idea di un “io” fondato su se stesso, il corpo vivente indica l’esistenza di una “matrice relazionale” che precede e suscita l’emergenza del soggetto e diventa il presupposto per pensare a un nuovo universalismo che ha il punto di partenza nella propria dimensione sensibile, nella propria vulnerabilità e nella propria dipendenza e il punto di arrivo nel superamento della fisicità, entrando nella sfera della pura emozione, mettendo a nudo l’anima.
Corpi nudi che rappresentano vite: di gladiatori del passato che ogni giorno affrontavano belve o compagni, di migranti di oggi che attraversano mari e terre, non importa. Sempre e comunque uomini che lottano, soffrono, combattono per vivere, per sopravvivere, per essere liberi. Corpi delineati che raramente mostrano il volto, ma sono pieni di crepe, venature, fessure, ferite o meglio feritoie messe in evidenza da foglie d’oro che rompono il bicromatismo nero/bianco e vanno ben oltre l’effetto estetico. Crepe, feritoie e fessure che rappresentano finestre dell’anima aperte sui corpi. Attraverso queste feritoie l’anima viene fuori e traspare nuda e vera all’esterno, sulla fisicità massiccia e dura, ma che nasconde spesso sofferenza e fragilità tracciando anche linee di confine. Quelle linee di confine sottili tra il corpo e l’anima, la vita e la morte, il buio e la luce che, nell’antichità, i gladiatori, gli schiavi-eroi percorrevano ogni giorno e che oggi si ritrovano non solo nella vita dei migranti che le oltrepassano sperando in una vita migliore, ma anche negli uomini comuni. Confine è, letteralmente, “cum finis”, ciò che separa e nello stesso tempo unisce, ciò che si ha in comune con l’altro o l’oltre, qualunque cosa l’altro o l’oltre sia o significhi. Dunque è comprensibile quanto sia ambiguo e bivalente il concetto di confine perché se da una parte rappresenta un limite all’espansione, dall’altro è anche il luogo e il punto dove inizia l’interscambio e la comunicazione con l’altro. È già indicativo, comunque, che il concetto di confine richiami immediatamente il concetto di alterità, e quest’ultimo quello di identità. Una catena logica che dovrebbe far riflettere su cosa consideriamo all’interno e cosa è invece “fuori”, esterno. Se, infatti, il confine nel mondo antico era un vero e proprio limite naturale, cioè un “finis–terrae”, spostando l’attenzione ai corpi viventi di Ambrosino, questo confine dallo spazio fisico e naturale si sposta in una dimensione essenzialmente umana e sociale e basta un semplice cambiamento di punto di vista, per vedere il mondo in maniera diversa. Diventa quella linea sottile che trasforma l’altro in straniero e diverso e che crea mentalmente la barriera del non conosciuto che genera da sempre paura e quindi non accettazione. Questa frontiera mentale e sociale è più forte di ogni muro fisico e segna una separazione netta tra l’interno e l’esterno e li pone uno di fronte all’altro, uno contro l’altro, creando il nemico da cui proteggersi e a cui chiudere ogni varco. Questa linea di frontiera è ambivalente, in quanto un individuo può trovarsi in entrambe le situazioni, sia essere un gladiatore o un migrante, sia essere un uomo libero o cittadino a seconda del territorio in cui si trova o in quello dove vuole arrivare. Nei corpi viventi di Danilo Ambrosino le feritoie d’oro rappresentano, dunque, questa ambivalenza: la divisione profonda e il suo superamento. Una divisione nell’animo più che fisica, una divisione con cui l’uomo non riesce a collocarsi in qualche spazio che non sia il proprio senza sentirsi fuori luogo; il superamento dove non c’è più il considerarsi stranieri, ma il sentirsi tutti appartenenti ad un unico mondo, dove si supera il concetto dell’ “ego” e si diventa un “nos”, non più gladiatori, migranti, schiavi ma semplicemente uomini.
Rosalia Santoro
Presidente Museo Provinciale Campano di Capua
La mostra “LEIB_il corpo vivente” di Danilo Ambrosino, a cura di Olga Scotto di Vettimo, programmata al MANN dal 13 maggio al 30 settembre 2021, in concomitanza con la mostra legata ai Gladiatori, è stata concepita come la prima tappa di un percorso esemplare che, coniugando antico e presente, faccia riflettere, tramite l’attento studio del corpo umano e delle sue ferite, le vicende legate all’uomo che ora è eroe, ora profugo, ora vittima: un diaframma fisico che lascia intravedere, oltre la sua matericità, gli aneliti e le ferite dello spirito. Oggi l’esposizione giunge nel Museo Provinciale Campano di Capua, un’istituzione storica famosa per il suo patrimonio archeologico che spazia dalle matres alle epigrafi edite da Theodor Mommsen. Anche in questo caso si ricostituisce il dialogo, stavolta a parte invertite: con le opere di Ambrosino interagiscono contributi tecnologici della mostra dei Gladiatori di Napoli, rimandi alla vicina sede di S. Maria Capua Vetere, luogo della genesi della leggenda di Spartaco e materiali archeologici dello stesso museo. La volontà è quella di proseguire questo percorso portando la mostra anche in molti altri anfiteatri campani, come Avella e Pozzuoli, nella convinzione che non ci sia una soluzione di continuità tra i tempi delle arti, ma solo un occhio diverso, mutato dalle culture, con un unico, comune denominatore: l’uomo artista che riflette e, più o meno inconsciamente, mette a nudo la propria anima. Un plauso al Museo Provinciale Campano di Capua che introduce prepotentemente la volontà di disseminare, tramite i nuovi linguaggi, le proprie sale, permettendo al Presente di contaminarsi vicendevolmente con il Passato, abbattendo le porte della cronologia e riconducendo l’esperienza ad un’unica dimensione spazio-temporale.
Paolo Giulierini
Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli